La Giuria del Premio Letterario Formebrevi ha selezionato l’opera vincitrice della terza edizione: “L’attonito Ottavio”, di Danilo Cannizzaro, per la qualità letteraria e la ricerca linguistica. Una scrittura visionaria e multiforme che riesce a cogliere, con lucidissimo sguardo, le trame nascoste e spesso indicibili dell’animo umano. Il Premio Letterario Formebrevi rappresenta un momento di grande importanza nel processo di promozione delle scritture di ricerca avviato da diversi anni dall’Associazione Formebrevi. L’opera vincitrice della terza edizione e le motivazioni della giuria saranno presentate nel corso della cerimonia di premiazione che si terrà a Caltanissetta nel mese di gennaio 2020. L’organizzazione e la giuria del Premio Letterario ringraziano tutti i partecipanti intervenuti.

Sinossi dell’opera:
“L’attonito Ottavio” è una silloge elegiaca di riflessioni, fatti, ritratti, sentimenti riguardanti una Sicilia dell’anima. Sicilia personale, intima e collettiva nello stesso tempo, visualizzata attraverso la deformazione grottesca che coglie, e restituisce al lettore una visionaria fisionomia barocca.
Ne vengono fuori quindi acquarelli che rivelano miraggi scherzosi soffusi di ironica malinconia, schizzi frettolosi e più compiuti studi degli enigmi della condizione umana vista tra composite rappresentazioni oscillanti dal comico al fantastico, dallo storico e filosofico all’apologo, dall’invettiva becera alla partecipata testimonianza d’una età e d’una cultura non ancora del tutto defunte, così come la memoria vorrebbe preservarle dalla voracità del divenire.

L’autore:
Danilo Cannizzaro, vive e lavora in Sicilia. Premiato e segnalato in numerosi concorsi letterari, ha pubblicato le seguenti opere: “Una al giorno” (Beta, 1989), “I fantasmi dei sogni interrotti” (Montag, 2016), “Carmineide” (Laura Capone, 2017), “Patonseide” (Il leggio – Libreria Editrice, 2018)

Note:

[…] prima di ogni altra cosa la dirompente espressività linguistica: costruzioni sintattiche ardite, parole della tradizione, arcaismi inconsueti, neologismi affollano le pagine tenute in bilico tra i due estremi della lingua ipercolta della voce narrante e quella iperpopolare […] per generare sicuri effetti comici […] La lingua di Cannizzaro non serve a raccontare, ma a illuminare le cose, a trasfigurarle, a corromperle, a goderne, o a soffrirne. (Loredana Salis)

[…] Una promessa per l’editoria. (Silvana Perotti)

[…] una capacità davvero non comune. (Oliviero La Stella)

[…] In realtà è uno scrittore arguto e profondo (aggettivi che ben di rado possono coniugarsi senza parlare a sproposito), un artista eclettico capace di passare dalla poesia alla farsa, facendo tappa qua e là, su romantico, intimistico e drammatico. Insomma, è uno di quelli che sanno suscitare emozioni. (Patrizio Pacioni)

Ci sono motivi, ottimi, per non leggere le opere di Costui: sono offensive; sono immorali; non sono serie; sono cattive, sarcastiche fino alla trivialità, feroci; sono impopolari; sono addirittura – se non bastasse ancora – “politicamente scorrette”. E poi possono creare nemici, oltre che far venire le rughe. E vi spieghiamo anche perché. Sono offensive, poiché riferiscono molto a proposito degli enigmi della condizione umana: parlano degli uomini (e delle donne, va da sé). Ne dicono parecchio, di gente reale, esistente (come potrebbero non offendersi, in molti?). Sono immorali, per il motivo che mostrano “vergogne”. La cosa peggiore è che lo fanno in modo divertente, tanto divertente che, alla fine, si ha la sensazione che molte pagine restino appiccicate addosso. Non sono serie, di certo, visto che non possono soddisfare il gusto del lettore superficiale. Sono cattive, sarcastiche fino alla trivialità, feroci: rompono le ossa, distruggono le cose e la lingua persino, mediante suoni e colori che suggeriscono, insinuanti, l’inquietudine metafisica, nostalgie, l’invettiva becera e (serpeggiante tra le pagine), la tristezza. Nascosta tra bordate di virtuosismo. Una tristezza vastissima, interminabile, ardente. Sono impopolari: non sono sufficientemente mediocri e non posseggono l’efficacia sicura dei luoghi comuni che affratellano, confortano, rassicurano. Piuttosto confondono, turbano, essendo questi racconti, anche loro, “diversi”. Sono scorrette: costringono il lettore a vedere le cose da un punto di vista che non avrebbe scelto da solo, in autonomia e libertà. Fanno venire le rughe, infine, giacché molto fanno sorridere. E ridere. Dentro, soprattutto. (La Sicilia – 3 novembre 2016).